Omelia del Vescovo Daniele per la Messa della notte di Natale (Cattedrale di Crema, 25 dicembre 2021)
Nel suo centro più semplice ed essenziale, il mistero che la Chiesa celebra in questa santa notte, è quello della nascita di un bambino. In sé, è un evento tutt’altro che insolito, perché si è ripetuto miliardi di volte, su questo nostro pianeta, da quando l’umanità lo abita.
Se però la nostra memoria, e la nostra fede, hanno continuato a celebrare quella nascita, quella di Gesù, il figlio di Maria, venuto alla luce in circostanze un po’ tribolate – fuori della casa, lontano dal proprio paese, nel disagio di non trovare posto… – non è soltanto perché eccezionale, straordinario, per così dire, è Colui che è nato.
Nella fede lo riconosciamo come il Figlio di Dio; l’angelo lo presenta ai pastori come il Salvatore, Cristo Signore. I titoli di gloria che il profeta annunciava per un altro bambino, otto secoli prima di Cristo – «Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (Is 9,5: cf. I lettura) – trovano verità e pienezza proprio nel bambino nato a Betlemme.
Ma potremmo anche rovesciare le cose, e dire che questa nascita – la nascita di Gesù – porta a compimento ciò che in qualche modo è atteso in ogni nascita; fa venire alla luce la verità nascosta nella nascita di ciascuno dei miliardi di esseri umani venuti al mondo nel corso dei millenni.
Potrebbe essere questo il senso del fatto che Gesù è nato quando «un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra» (Lc 2,1): frase che ha qualcosa di esagerato, ma che vuole forse suggerire che il Figlio di Dio entra nella nostra umanità anche come «uno dei tanti», e che proprio a partire da questa solidarietà con la moltitudine degli esseri umani venuti al mondo, o che verranno in futuro, si può comprendere bene anche il carattere unico di questa nascita.
«Un bambino è nato per noi, / ci è stato dato un figlio» (Is 9,5): riprendiamo ancora le parole del profeta nella prima lettura.
È nato per noi anche per farci guardare al mistero della nascita. La nostra nascita è un evento più o meno lontano, nella storia di ciascuno di noi; ed è difficile – almeno a mia conoscenza – dire in che cosa il nostro venire al mondo si imprime in noi e ci segna per sempre.
Guardare alla nascita, però, è importante per noi cristiani. Ciò che abbiamo ricevuto in dono da Dio, e che siamo chiamati a testimoniare con la nostra vita, è una «nuova nascita», o una «rinascita». Pensiamo alle parole di Gesù a Nicodemo, nel vangelo di Giovanni: «In verità, in verità io ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». E pensiamo anche alla comprensibile obiezione di Nicodemo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,3-4).
Eppure, proprio di questo si tratta. In fondo, tutto il cammino della fede e della vita cristiana, a partire da ciò che incomincia nel battesimo, è un continuo rinascere alla vita dei figli di Dio: fino all’ultimo atto, fino all’ultima nascita, quella che chiamiamo la «nascita al cielo», nel giorno della nostra morte: che non sarà più, allora, una fine, ma il passaggio pasquale, il parto definitivo, che ci vedrà nascere per sempre alla vita di Dio.
Si tratta di rinascere: che è poi un altro modo per esprimere ciò che Gesù ha detto ai discepoli: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,3-4).
Gesù aveva detto quest’ultima frase dopo aver messo in mezzo ai discepoli un bambino. Ma in questa notte credo che la possiamo riascoltare guardando proprio a quel bambino che è nato a Betlemme: «Chiunque si farà piccolo come questo bambino» – come questo Bambino nel quale Dio stesso ci è venuto incontro, come il Bambino deposto nella mangiatoia – «costui è il più grande nel regno dei cieli».
La nascita di Gesù può suggerire molte cose, in vista di quel ‘rinascere’, nel quale consiste la nostra vita di credenti (ma credo che qualcosa del genere si dovrebbe dire di ogni vita umana). Ne sottolineo rapidamente tre.
1) È felice, l’esperienza della nascita, quando è attesa, accolta; quando chi nasce viene ricevuto nelle mani amorevoli di una madre, è accolto da un padre, è motivo di riconoscenza e gioia per fratelli, parenti, amici. Pur nel disagio della stalla, la notte di Natale ci parla anche di questo.
L’accoglienza riservata a chi entra in questo mondo attraverso la nascita è segno di ciò che a tutti permette di vivere: è segno del sentirsi amati, voluti, desiderati… Attraverso i gesti umani di cura e premura per il neonato, si manifesta l’amore originario e assoluto, ciò per cui ciascuno di noi può sentirsi desiderato, voluto, amato personalmente da Dio stesso, fonte di ogni vita.
Siamo nati dal grembo dell’amore personale di Dio per noi: a partire da questo stesso amore ci è sempre offerta la possibilità di rinascere, quale che sia la deriva che la nostra vita può aver preso. L’amore che ci ha accolto all’inizio è disponibile ad accoglierci fino alla fine.
2) Per noi cristiani, la nascita di Gesù è il vero inizio, l’avvio di una nuova creazione – non a caso contiamo gli anni e i secoli a partire da quella nascita. E la nascita di Gesù ci dice che un nuovo inizio è possibile. Ne abbiamo bisogno, perché troppe volte ci sentiamo schiacciati da ciò che ci portiamo dietro, e pensiamo difficile, o impossibile, ricominciare, rinascere, come appunto obietta Nicodemo a Gesù.
Questo tempo che viviamo, in particolare, sembra voler precludere ogni nuovo inizio, ogni velleità di ricominciare. Ma noi guardiamo a quel piccolo e insieme grande inizio, che è la nascita di Gesù, e di lì siamo condotti ad avere fiducia nel Dio che non si stanca di riprendere da capo le cose; senza che quanto di buono c’è stato nel passato vada perduto, ma invitandoci anche, in Cristo, ad aver fiducia negli inizi nuovi, che possono attraversare la vita nostra e della nostra società.
3) Nascere, venire al mondo, significa anche inserirsi in un’umanità e in una creazione. Chi nasce ha bisogno radicale degli altri: ma ciò che nella nascita è evidente – Gesù, per primo, il Figlio di Dio, ha avuto bisogno di una madre, di un padre, di altre sorelle e fratelli in umanità – non viene mai meno, nel corso della nostra vita.
Così la nascita è anche un appello alla fraternità. E la rinascita non può essere che invito ad accogliere e, al tempo stesso, costruire questa nuova fraternità: riconoscendoci bisognosi gli uni degli altri; riconoscendo che possiamo essere dono gli uni per gli altri.
Quel figlio che è nato per noi a Betlemme ha questo solo desiderio: di trovare nell’umanità fratelli e sorelle, per poterli condurre al Padre come figli e figlie, e perché tra di loro – tra di noi – siano superate divisioni, conflitti e discordie, perché (torno al profeta Isaia) siano spezzati i gioghi insopportabili e i bastoni degli aguzzini, siano date al fuoco le calzature di soldati che marciano rimbombando e i mantelli intrisi di sangue (cf. Is 9,3-4), con tutto ciò che offende e deturpa l’uomo fatto a immagine di Dio.
Sì, è possibile farsi piccolo «come questo bambino», come il Bambino di Betlemme; è possibile rinascere in Lui, scrollarsi di dosso stanchezze e timori, e vivere la novità inaugurata dal Natale. Lo chiediamo con fiducia a Dio, per intercessione della Madre di questo Bambino: e sia questo il dono che rende bello e buono il Natale che stiamo celebrando.